sabato 4 maggio 2013

Grandi europe!


Ah, gli Europe. Quanti momenti passati in compagnia della loro musica, quante emozioni associate alle loro canzoni. Alzi la mano chi non riconosce in un inno come The Final Countdown un almeno un ricordo, una memoria gloriosa e lontana di un qualsiasi momento che fu. La loro reunion del 2004 dopo undici anni di silenzio si è abbattuta sui rocker di tutto il globo come un fulmine a ciel sereno, portando con sè effetti a dir poco sconquassanti grazie a quel piccolo grande disco dal nome Start From The Dark. Un ritorno in nome del rinnovo e della discordia, che nel bene o nel male ha riportato in auge il leggendario monicker svedese, nobilitato dal ritorno in pianta stabile del figliol prodigo John Norum. Conservo ancora nella memoria le vivide immagini delle espressioni di sorpresa e in alcuni (molti) casi di sdegno dipinte sui volti di chi si aspettava una rassicurante rimpatriata tra le sonorità degli anni ottanta, le accuse di alto tradimento e l'ondata di critiche che accompagnò il disco di ritorno. Qual'era la sua colpa? Quella di presentare un suono moderno e potente, ricco di groove e di riffoni di chitarra ribassati, che poco aveva a che vedere con le sontuose melodie degli anni passati. La verità era semplicemente che gli Europe, in quanto artisti veri, avevano scelto la strada più rischiosa, riuscendo ad attualizzare il proprio marchio di fabbrica senza svendersi ai trend del momento.


Chi ancora si ritiene tradito o semplicemente deluso da quel passo azzardato può immediatamente cliccare sulla X in alto a destra. Chi spera in un ripensamento o in un passo indietro, beh, può continuare a sperare invano. Joey Tempest e compagni proseguono decisi sulla strada tracciata col disco precedente mostrando una decisione ed una fiducia nei propri mezzi propria di chi non ha timore di guardare avanti. Come prima, più di prima: Secret Society riparte esattamente dove si era fermato Start From The Dark per ampliarne i pregi, pur rimanendo sostanzialmente nel solco di un hard rock tosto ma eternamente melodico, in cui la tradizione scandinava è codificata secondo il linguaggio del nuovo millennio.

Trionfatore assoluto della partita è John Norum, che con la sua chitarra riesce a fare il bello e il cattivo tempo, inventandosi una caterva di riff azzeccati ed una serie di assoli fantastici, suonati con la consueta maestria e il solito gusto. Non stupisce quindi che la titletrack consista in un refrain costruito attorno a due spumeggianti assoli di chitarra ed un pregevole solo di tastiera di un rinvigorito Mic Michaeli. Non stupisce neanche la scelta del primo singolo, affidata alla successiva Always The Pretenders, un gran numero rock dotato di un riff vigoroso e di un tiro micidiale che ben presenta il platter e lo mette sotto la giusta prospettiva: quella di un album fresco e moderno, che racchiude in sè energia e classe da vendere e, lo dico una volta per tutte, chi se ne frega se non suona come un vecchio disco degli Europe!

Il frizzante trittico iniziale viene completato da Love is Not The Enemy (il cui testo cita "we're heading for Venus", vi dice niente?), baciata tanto per cambiare da un grande assolo di Norum, e cede il posto alla doppietta Wish I Could Believe - Let The Children Play, due midtempo che segnano il passaggio dei tempi dall'era melodica rappresentata dalla prima al modernismo e al groove ficcante rappresentato dalla seconda. Dopo una non eccelsa Human After All, ammorbata da linne vocali poco efficaci, il disco fa il suo ingresso nella fase saliente: si passa dagli ottimi pezzi ascoltati sin'ora a delle piccole perle. La prima è The Getaway Plan, che si snoda su un'adrenalinica ritmica sostenuta ed esplode nel travolgente chorus, mettendo in risalto il preciso lavoro dietro le pelli di Ian Haughland. Inutile dire che anche in questo caso il buon John si supera nell'assolo. Dopo la ballatona A Mother's Son, che si fa apprezzare per l'interpretazione sentita di Tempest e per i suoi toni tristi ma non troppo sdolcinati, arriva il secondo gioiellino. Forever Travelling annovera la melodia più riuscita del disco e non ci metterà molto a farvi innamorare di sè con i suoi accenti malinconici che riecheggiano dei tenui colori del tramonto. Un pezzo che mette davvero i brividi. Tuttavia il meglio deve ancora arrivare e lo fa dopo la sferzata di energia di Brave and Beautiful Souls. Un arpeggio di basso rubato a Don't Fear The Reaper dei Blue Oyster Cult e si parte per l'ultimo capolavoro del disco, Devil Sings The Blues, canzone che tradisce l'amore del gruppo per l'hard rock dei seventies, Thin Lizzy tra tutti. Un’affascinante cavalcata sorretta da un gran gioco del basso di John Levén e dalle magiche atmosfere create dalla tastiera di Mic Michaeli, insignita del magistrale assolo di Mr. Norum, che porta a termine un disco che presenta come unico punto debole una delle copertine più orrende che io abbia mai visto.

Il dado è stato tratto due anni fa, oggi i ragazzi continuano a giocare sicuri della loro nuova mossa. Chi aveva apprezzato Start From The Dark non potrà fare a meno di amare Secret Society, mentre chi lo aveva odiato troverà questo disco spregevole. Io sono saldamente nella prima fazione.



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